Nuovi trend Spirit & Beverage per il 2022

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Quali saranno le nuove tendenze per il mondo Spirits & Beverage Ogni anno il gruppo Bacardi pubblica il consueto e attesissimo Trend Reports, cercando di identificare quelle che saranno le nuove correnti nel mondo del Beverage. Per il 2022 sono emersi 5 macro trends, alcuni in continuità con il 2021, altri del tutto inaspettati. Premiumizzazione: il desiderio di bere prodotti di lusso Due anni di pandemia hanno reso i consumatori più attenti e interessati al mondo Beverage, portando soprattutto alla sperimentazione a casa di spirits e cocktails. La tendenza è quella di ricercare prodotti di maggiore qualità, seguendo la logica del “bere meno, bere meglio”. Sono in particolare 5 gli spirits che stanno vivendo questa trasformazione in prodotti premium: tequila, rum, gin, whisky e mezcal. Salta all’attenzione che due su cinque sono prodotti a base di agave. Questo sarà molto probabilmente un altro trend da tenere d’occhio visto che la tequila è al momento il secondo spirits nel mondo che cresce più velocemente in valore. Si inseriscono in questo trend anche i prodotti RTD “ready to drink”, come ad esempio l’interessante mondo dei cocktail pronti in bottiglia o lattina. Digital drinking: bere digitale Sempre a causa della pandemia i canali di acquisto si sono spostati verso l’online, con la crescita esponenziale dell’e-commerce. Non solo, anche il modo di bere e di miscelare è cambiato. Grazie a tantissime proposte di corsi e seminari online. Questo significa che i consumatori sono più preparati e soprattutto più attrezzati per il consumo casalingo. E questo fattore modifica le campagne di marketing delle grandi aziende, ma soprattutto la proposta di prodotti. Sostenibilità La ricerca di prodotti sempre più sostenibili è arrivata anche nel mondo degli Spirits. I consumatori sono molto più attenti alla presenza di ingredienti locali, ai materiali del packaging e all’aspetto etico degli alcolici che consumano. Si evidenzia anche un crescente interesse verso l’uso di ingredienti definiti “naturali” come frutta disidratata, acqua di cocco e fermentati come la kombucha e il kefir. Sober-Curious Il 2022 sarà la conferma del trend NoLo (non-alcoholic or low-alcohol) a cui già abbiamo assistito nei due anni precedenti. Le persone hanno modificato il loro stile di vita a seguito della pandemia, approcciandosi in maniera più curiosa verso il mondo degli analcolici. Proprio per questo compaiono sul mercato sempre più prodotti a basso grado oppure completamente analcolici. Infatti sono in grado di soddisfare le aspettative di gusto di questi nuovi consumatori, che non vogliono rinunciare però a prodotti di categoria “premium”. Convivialità Sembrerà una banalità, eppure un trend del 2022 sarà proprio questo: la necessità e la ricerca di momenti di convivialità tra le persone. L’isolamento mondiale ha generato il bisogno di connessione e di incontro, accompagnato da esperienze forti e celebrative. Concerti, eventi, mostre, sia in presenza che online saranno un caposaldo nel nuovo anno (si spera). Inevitabilmente il mondo Beverage dovrà avanzare proposte in grado di accompagnare questi momenti. Queste sono le previsioni per il 2022. Anche se l’incertezza di questo periodo storico porterà sicuramente a nuovi e inaspettati twist nel mondo Beverage. Puoi approfondire questo argomento leggendo il Report Integrale…oppure iscrivendoti ai corsi di TSM Academy!

Il vino come medicina

Il potere benefico del vino, dalla medicina antica fino ad oggi Il vino, sia di uva che di altri frutti, è sempre stato usato sin dalla sua “scoperta” con scopo medicinale.  Il suo contenuto di alcol ne determina infatti due effetti fondamentali per la medicina antica: un effetto sedativo e analgesico, che in assenza di qualunque tipo di medicinale era piuttosto indispensabile; e un’azione solvente, in grado di estrarre principi attivi da erbe e spezie poste in infusione.  Non di meno il vino, e altre bevande fermentate come sidro e birra, erano anche sostituti preziosi dell’acqua, la cui salubrità era spesso compromessa, non esistendo gli attuali sistemi di depurazione.  Louis Pasteur nel XIX secolo definirà il vino come “la più sana e la più igienica delle bevande”. Nei secoli medici e alchimisti hanno studiato le proprietà di questa bevanda, consegnandoci un grande numero di scritti e trattati. La medicina dell’antica Grecia Il vino è al tempo stesso sacramento e divertimento per l’uomo anziano. Gli è stato dato da un dio come rimedio all’austerità della vecchiaia. Il vino riempie il nostro cuore di coraggio. (Platone)   Il padre della medicina occidentale fu Ippocrate di Cos, studioso e grande conoscitore dell’anatomia umana. Fu il primo a separare la figura del medico da quella del filosofo e a rendere sistematico lo studio delle malattie e dei loro sintomi.  La sua teoria degli umori fu adottata per molti secoli a venire, conservata e studiata dai monaci amanuensi nelle abbazie di Europa.  Ippocrate suggeriva il vino come disinfettante per le ferite, sedativo, corroborante e antipiretico, sempre addizionato di erbe medicinali. Galeno, filosofo e medico, si dedicò allo studio della medicina ippocratica, apportando numerose conoscenze anatomiche, tanto da valergli un posto alla corte dell’Imperatore Marco Aurelio, e nella storia della medicina fino al Medioevo. Si pensi che ancora oggi esistono i cosiddetti “preparati galenici”. Le sue preparazioni a base di vino, gli enoliti, comprendono una vasta tipologia di erbe ma soprattutto di vitigni, a seconda della patologia da trattare.  Salvia, cardo, santoreggia e assenzio sono solo alcune delle erbe citate da Galeno. La Scuola Medica di Salerno e Arnaldo da Villanova Nella Scuola Medica di Salerno, la prima e più importante istituzione medica in Europa, lo studio del vino medicamentoso trovò il suo terreno ideale.  Arnaldo da Villanova condensò nella sua opera “Trattato sui vini” la sua esperienza e le sue conoscenze. In questo scritto si possono leggere preparati a base di vino per tutti i tipi di malanni: dal vino contro la malinconia a quello per curare la memoria, fino a rimedi contro la febbre o la nausea.   Come non menzionare la ricetta del vino all’assenzio, antenato dell’odierno Vermouth? Villanova nel “Trattato sui vini” scrive così:   Il vino d’assenzio agisce contro i vermi, i calcoli fetidi e flemmatici presenti nella cavità del corpo e nei luoghi nascosti; disgrega i calcoli, li dissolve, li consuma: conserva proprietà utili per non tollerare eccessi ed espulsive per allontanarli. Un medico lo utilizzava per ogni disturbo sconosciuto, con una ricetta base di succo di assenzio, di rose, di borraggine e di indivie: il composto cancella la viscosità del flusso, conforta la parte per evitare che l’umore si presenti. Faceva cuocere il tutto e definiva il risultato lodevole. Il vino d’assenzio agisce contro i reflussi e i vapori provenienti dallo stomaco, contro l’ostruzione della milza e del fegato, contro l’itterizia, l’apoplessia e l’afonia, contro l’asfissia dovuta a un’intossicazione da funghi e contro il veleno.  Il suo uso schiarisce la vista, viene in aiuto allo stomaco e al fegato, dissolve l’urina, alleggerisce il mestruo, conduce l’umore crudo del ventre. Il vino d’assenzio è il rimedio indicato per l’intossicazione da cicuta, giusquiamo, oppio e altri prodotti narcotici; resiste a tutti i veleni, il suffumigio del vino conduce alla sordità per occlusione e se si lavano le ferite con questo vino non ci sarà formazione di fistole né putrefazione della carne; utile anche contro il prurito alterato dal flemma che per sintomo ha la comparsa di pustole bianche e molli. E se si beve prima di imbarcarsi, non si ha nausea né si rimette. Se si consuma in occasione di un’epidemia, ci si può spostare e rendere visita ai malati: l’aria che si respira non presenta alcun pericolo.  Certuni bevono il succo crudo dentro del buon vino, in un determinato periodo, affermando che questo è il modo migliore per non essere ammalati durante l’anno.  Favorirebbe il sonno, allontanerebbe i tumori, farebbe sparire i dolori. Un decotto di questo vino è un rimedio efficace per i paralitici. Esso è anche valido per i tumori della lingua, e di molte altre cause. La medicina popolare Il vino rimase a lungo un ingrediente della medicina popolare e casalinga, utilizzato per guarire i piccoli disturbi.  Usato in combinazione con erbe e frutta era il rimedio ideale per problemi di stomaco, raffreddori e dolori di vario genere. Non bisogna scordare il grande ruolo che questa bevanda ebbe nell’alimentazione: se oggi il vino è un piacere, fino a pochi decenni fa era parte integrante e indispensabile della dieta popolare. Il vino assicurava infatti calorie extra per il duro lavoro nei campi e riscaldava durante i periodi più freddi dell’inverno. La medicina moderna Anche la moderna medicina si è interessata recentemente delle proprietà medicinali del vino, in particolare del suo contenuto di antiossidanti.  Forse suonerà familiare il “paradosso francese”, che evidenzia come un alto consumo di grassi animali assunti dalla popolazione francese (formaggi e carni), non risulti in un altrettanto elevato tasso di malattie cardiovascolari. Un tentativo di spiegare questa singolarità ha portato all’attenzione il consumo giornaliero di vino rosso, come possibile protettore del sistema cardiovascolare. Oggi l’attenzione è su una molecola in particolare, che possiamo ritrovare facilmente sotto forma di integratore o anche nei prodotti cosmetici: il resveratrolo.  Contenuto anche nei frutti rossi, nei pistacchi e nel cioccolato, oltre che ovviamente nei vini rossi, il resveratrolo è un polifenolo con proprietà antiossidanti e antinfiammatorie.  Per raggiungere però i livelli utili di questa molecola proposti dai diversi studi

La storia del vino

Le origini del vino, una storia lunga milioni di anni Quando sorseggiamo un buon calice di vino e ammiriamo la bellezza di un paesaggio viticolo, spesso non pensiamo alla storia del vino. Ci sfugge il fatto che stiamo osservando qualcosa che ha una storia di milioni di anni. La storia del vino infatti inizia dalla Preistoria, passa per le popolazioni della Mesopotamia, e arriva fino a noi, attraversando epoche, popolazioni e culture diverse. La vite come noi la conosciamo oggi: la Vitis vinifera e la storia del vino La storia del vino parte dalla sua materia prima, l’uva, e dalla pianta che la produce, la vite.  La vite è una pianta straordinaria, capace di adattarsi ai climi più vari. La sua coltivazione è infatti possibile in una vasta area del nostro pianeta, che va dai 30° ai 50° di latitudine nord e sud. Le prime testimonianze archeologiche dell’esistenza di piante del genere Vitis si datano nel Paleocene, circa 65 milioni di anni fa.  La vite da vino che conosciamo noi oggi, ovvero la Vitis vinifera è il prodotto di una domesticazione durata migliaia di anni, da parte delle popolazioni preistoriche, che trovarono le prime bacche di cui cibarsi nei boschi e nelle radure. Una prima tipologia di coltivazione si sviluppò solo nel Neolitico quando l’uomo smise di essere cacciatore e raccoglitore nomade e iniziò a stabilirsi in villaggi. Come in ogni insediamento è corretto immaginare la presenza di una sorta di discarica in cui venivano gettati scarti alimentari e altro materiale. In questi immondezzai ricchi di composti e sostanze organiche era molto facile che i semi contenuti negli scarti di cibo germogliassero, dando origine a piantine.  La storia del vino e la vite selvatica La vite selvatica era “dioica” ovvero con fiori maschili e fiori femminili su piante distinte.  Intuitivamente l’uomo selezionò per prime le piantine in grado di dare grappolini, ovvero quelle femminili. Solo successivamente le piante con fiori ermafroditi vennero protette e coltivate con cura, perché potevano garantire sempre una produzione di frutto, anche in assenza di piante maschili nelle vicinanze, altrimenti necessarie per la fecondazione dei fiori. Questo processo di domesticazione e selezione delle piante più produttive durò per diverse migliaia di anni fino a portare allo sviluppo delle prime zone viticole intorno al 5000 a.C. nella Mesopotamia. La Mesopotamia e l’Egitto Dal 3000 a.C. si hanno testimonianze certe della coltivazione della vite da parte dei Sumeri nella Mesopotamia meridionale, in particolare in piccoli vigneti irrigati all’interno di complessi templari. La maggior parte del vino proveniva tuttavia dalle zone vicine alla catena dei monti Zagros, nell’Iran occidentale, dove la viticoltura era favorita dalla maggior altitudine. È curioso notare come già in epoche così antiche fosse noto che dalle zone montuose e collinari avesse origine un prodotto dalle caratteristiche qualitative migliori.  La viticoltura si diffuse poi nel sud-ovest asiatico e nel Mediterraneo Orientale, fino a coinvolgere l’Egitto, ricchissimo di documenti iconografici relativi alla viticoltura, che forniscono numerose indicazioni sulle pratiche agronomiche ed enologiche del tempo. La coltivazione della vite e la lavorazione dell’uva La vite era coltivata in pergolati, sempre dotati di irrigazione a causa del clima caldo e secco. La pigiatura veniva fatta con i piedi in grandi contenitori, dotati di corde a cui gli uomini potevano aggrapparsi durante questa faticosa operazione. Una volta conclusa la fermentazione, le bucce erano poste in una busta di tela attaccata a due corde.  Quest’ultime venivano fatte girare per strizzare il succo rimasto, in una sorta di pressa primordiale, ma sicuramente molto efficace. L’industria vitivinicola romana Il viaggio e la diffusione della viticoltura continuarono fino a raggiungere le coste più occidentali del Mediterraneo. In Grecia iniziò la produzione di vini che diverranno particolarmente famosi e apprezzati in età imperiale presso i Romani. Con la fondazione di colonie nella parte occidentale del Mediterraneo intorno al VIII secolo a.C. si aprirono nuove rotte commerciali per i prodotti greci. Anfore ioniche sono state ritrovate in Francia, indicando che la diffusione del vino raggiungeva già l’area della valle della Saône e del Giura. Lo sviluppo e il consolidamento delle colonie italiche favorì l’installazione di nuovi vigneti e il conseguente commercio del prodotto. Questo fu poi esportato e diffuso a nord, fino in Gallia. La Repubblica romana si ritrovò quindi, con l’ampliarsi del proprio dominio, con un patrimonio vinicolo vastissimo e molto variegato, come descriverà poi Plinio nella Naturalis Historia, il primo trattato di ampelografia della storia, la scienza che studia e classifica le diverse varietà di vite.  La viticoltura nella villa romana A partire dal II secolo a.C. la coltivazione dell’uva da vino assunse i connotati di una vera e propria industria, soprattutto grazie alle numerose conoscenze tecniche, testimoniate nei molti trattati di agricoltura e proto-enologia del tempo. La villa romana si articolava infatti come una azienda agricola. Era strutturata per un’agricoltura di tipo intensivo: i territori erano dell’ordine delle centinaia di ettari, dislocati in varie zone dell’Impero, e coltivati da eserciti di schiavi e braccianti, motivo per cui il rapporto costi-ricavi non era da trascurare. Inoltre, queste prime aziende vitivinicole erano specializzate nel commerciare i loro prodotti all’estero. Questo è testimoniato dai ritrovamenti archeologici di anfore di forma diversa a seconda della provenienza del prodotto, una sorta di primo riconoscimento di denominazione per evitare contraffazioni.  Dal numero di anfore ritrovate si ipotizza un flusso commerciale di 100.000 ettolitri di vino l’anno, in evidente crescita vista la progressiva adozione di anfore di capacità maggiore. La crescita della domanda è da ricercare nella grande ricchezza dell’impero in seguito alle conquiste orientali, e soprattutto ad un importante aumento demografico, con conseguente richiesta maggiore di vino, come attesta la grande concentrazione di osterie a Pompei, Ostia ed Ercolano. L’industria vitivinicola Un’industria così fiorente da dover subire ad un certo punto un controllo di tipo statale. Nel 92 d.C. infatti la superproduzione dell’industria vitivinicola romana costrinse l’Imperatore Domiziano ad emanare in uno specifico editto. Questo  impediva l’impianto di nuovi vigneti in Italia e obbligava alla distruzione di una parte nel resto delle Province. Anche nei secoli successivi vennero

Produzione Whisky: le diverse scuole di produzione

Una vera e propria full immersion nella produzione del Whisky! Come si distingue il whisky Irlandese dal parente scozzese? Quali sono i diversi metodi di produzione che danno origine a prodotti molto diversi tra loro? Attraverso questo articolo scoprirai le diverse scuole di produzione ed ancora le varie tipologie di questo distillato: grain whisky, single malt scotch whisky, single malt…iniziamo! Il whisky è un distillato complesso e affascinante, ricco di storia e di tradizione. Acqua, malto e cereali si combinano insieme per essere poi distillati e arrivare al lungo invecchiamento in botti di legno. Esistono diverse scuole di produzione del whisky, ciascuna con le sue peculiarità, capaci di dare origine a prodotti dalle caratteristiche molto diverse fra loro.  La Scozia e i suoi single malt Parlando della produzione del Whisky non possiamo che partire dalla Scozia con i suoi single malt. Da questa terra remota e montuosa nasce il whisky per eccellenza, forse il più rappresentativo fra tutti: il single malt scotch whisky. I single malt scozzesi, prodotti esclusivamente con malto, sono apprezzati e conosciuti in tutto il mondo, soprattutto per i tipici sentori di torba, caratteristici delle produzioni delle Isole. La torba tradizionalmente veniva utilizzata come combustibile dalla  popolazione locale ed impiegata anche per alimentare i forni per l’essiccazione del malto. Questi erano capaci sia di ridurre l’umidità dell’orzo maltato sia di affumicarlo, apportando profumi che ricordano la salsedine e il catrame. Produzione del Whisky Scozzese: la distillazione La loro distillazione può avvenire solamente in alambicchi discontinui di rame. Solitamente la gradazione finale non supera quasi mai i 70/72 gradi. I single malt invecchiano poi in botti di quercia di capacità pari o inferiore ai 700 litri per un minimo di 3 anni. Il disciplinare consiglia un periodo più lungo fino a 5 anni ma non è obbligatorio. In pratica,  se il single finisce in un blend si usa anche il 3 se si vende tal quale meglio 5 o 7, acquisendo sempre maggior pregio e carattere con il progredire dell’invecchiamento. Per assecondare i gusti e le esigenze del mercato ad oggi è possibile  effettuare dei blend fra diversi single malt (blended o vatted malt). Storicamente si era soliti mescolare i single malt e whisky di altri cereali in distillazione in colonna ad alto grado, per dare origine alla categoria popolare dei whisky blended. Produzione del Whisky Irlandese L’Irlanda tuttora rivendica la paternità del whiskey, apportando anche una grafia tutta propria per il suo distillato. Il whiskey irlandese si distingue dal parente scozzese per un contenuto minore di malto d’orzo, storicamente pesantemente tassato. I distillatori irlandesi per sfuggire alle imposte del regno d’Inghilterra, utilizzavano infatti in prevalenza orzo non maltato, seppure con una piccola percentuale di malto. Questo è necessario (vale per i whiskey single grain dove ci sono altri cereali e una percentuale piccola di orzo) per una corretta fermentazione degli zuccheri di questo cereale prima della distillazione.  Nel whiskey irlandese più tradizionale inoltre, si effettua (anche qui non è obbligatoria a disciplinare) anche una terza distillazione (una in più rispetto al whisky scozzese). Qui è assente la torbatura, anche se si ritrova in alcune produzioni recenti. Questo terzo passaggio dà maggior pulizia e morbidezza ai malti che solitamente hanno anche periodi di invecchiamenti totali più brevi. Nella scuola irlandese raramente si avevano dei single malt. Solitamente si procedeva alla creazione di blend ottenuti con altri cereali, quasi sempre grano o mais, distillati in colonna ad alto grado (94.8). Produzione Whisky Giapponese Dall’Europa spostandosi fino al Sol Levante, non si può non menzionare il whisky giapponese, ormai un prodotto universalmente riconosciuto per la sua qualità e cura nel processo produttivo. La nascita della distilleria “Nikka” Masataka Taketsuru, figlio di grandi produttori di sakè, si trasferì in Scozia per studiare chimica. Erano i primi anni del Novecento e in pochi anni Masataka riuscì a raccogliere tutte quelle preziose informazioni che lo portarono a fondare la sua distilleria in Giappone: la celebre Nikka. Dall’inizio della sua storia ad oggi, il whisky giapponese ha conosciuto una sempre crescente fama, grazie alla qualità indiscutibile della tecnica di produzione sviluppata nel corso degli anni.  Questa qualità ha trovato finalmente riconoscimento nella recente redazione del disciplinare di produzione del whisky giapponese, in vigore dal primo aprile 2021. Approvato il disciplinare per la produzione del Whisky Giapponese Per chiamarsi “japanese whisky” la Japan Spirits and Liqueurs Makers Association ha stabilito che l’intero processo produttivo debba essere svolto sul territorio del Giappone. Allo stesso modo la totalità delle materie prime (acqua, cereali maltati e non) deve essere di origine nipponica. L’invecchiamento minimo è della durata di 3 anni, e deve avvenire in botti di legno dalla capacità pari o inferiore ai 700 litri. Per essere imbottigliato il whisky deve avere gradazione di almeno 40% vol/vol. E’ consentito l’utilizzo di caramello come colorante per uniformare le diverse partite. Fino al 31 marzo 2024 ci sarà una fase di transizione.  I produttori potranno adattarsi alle nuove disposizioni poiché spesso i malti da fermentare erano acquistati direttamente in Scozia. La costituzione di questo disciplinare rappresenta una grande svolta e riconoscimento per questo prodotto. Infatti, la  produzione era prima “libera” ovvero a discrezione delle varie distillerie, e soprattutto a rischio contraffazioni. E’ pur vero che il mercato e i consumatori avevano già da tempo riconosciuto il valore di questo prodotto. Emblematica, già nel 2011, fu la vendita all’asta di una bottiglia di Yamazaki invecchiato di 50 anni, per la bellezza di 300.000 dollari, prezzo che non ha nulla da invidiare a quello di alcune storiche produzioni scozzesi. Il Whisky Canadese e il Proibizionismo americano La storia del whisky Canadese è indissolubilmente legata a quella del Proibizionismo americano. Non è un caso che alcune delle più grandi distillerie sorgessero proprio in Ontario, lungo il fiume Detroit, posizione ideale per contrabbandare fiumi di whisky negli assetati Stati Uniti. Spesso inoltre le materie prime, tra cui gli alambicchi e partite di whisky pregiato, venivano acquistate a poco prezzo dalle distillerie americane in piena crisi economica. Produzione del Whisky Canadese Ad oggi il whisky canadese è ottenuto per la maggior

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